Sermone del 27 Dicembre 2015 13


Luca 2, 21-32

Il vangelo di Luca ci dice due cose apparentemente contraddittorie sul piccolo Gesù. Solo apparentemente.

La prima è che Gesù era un bambino normale, come gli altri. Un bambino inserito in una famiglia e in una tradizione etnico-religiosa. Gesù è un neonato ebreo e, come tutti i neonati ebrei, deve essere circonciso.

Angeli, pastori, nascita miracolosa, figlio di Dio. Niente, niente di tutto questo è sufficiente a negare a Gesù il diritto e il dovere di seguire le usanze del suo popolo. È scritto nella Legge di Mosè, e Giuseppe e Maria portano il piccolo Gesù a Gerusalemme, al Tempio, per presentarlo al Signore, per consacrarlo a Dio.

Se ci pensiamo un attimo è curioso: che senso ha presentare a Dio il Figlio di Dio? Il senso è che, per quanto speciale, anzi specialissimo, Gesù era un bambino come gli altri.

Questa è la prima cosa. La seconda è che, per quanto normale, Gesù era speciale. Il piccolo Gesù non doveva apparire così diverso dagli altri neonati che venivano presentati al tempio. Chissà quanti ne vedevano, lì al Tempio. La storia raccontata da Luca ci dice che c’era un uomo, di nome Simeone, un uomo anziano, che aspettava di vedere la salvezza d’Israele. Il suo ruolo sembra essere analogo a quello del marinaio che aspetta nella coffa dell’albero maestro di vedere per primo la terra. Gesù era la terra promessa che Simeone aspettava di scorgere per primo.

Ecco le due cose apparentemente contraddittorie: Gesù era un bambino come gli altri, Gesù era diverso dagli altri bambini. Dicevamo, apparentemente. La teologia cristiana si spiega questa contraddizione con l’incarnazione. In Gesù la natura umana co-esiste con la natura divina, la normalità e la straordinarietà convivevano. E questo è il dogma, questo è uno dei fondamenti della fede cristiana.

Se ci riflettiamo un momento, vediamo che anche per noi, per uomini e donne che non sono Dio, che non lo sono mai stati, nemmeno da bambini, le cose stanno esattamente così. Siamo uguali agli altri, un bambino non è sostanzialmente diverso dagli altri bambini, eppure siamo diversi, siamo speciali, ognuno e ognuno di noi è speciale, è speciale per qualcuno.

Si chiama amore. Non so se possiamo chiamarlo l’Amore con la A maiuscola, ma si chiama comunque amore. Quando una persona ci ama, ci sceglie tra tante. Siamo tutti e tutte uguali, eppure c’è qualcuno che ci sceglie e, se chiediamo «Perché mi hai scelto?», probabilmente la nostra curiosità rimarrà inappagata. «Perché mi hai scelto?» «Perché sì» è la risposta più vera che potremmo ricevere. Ti ho scelto perché sei speciale. «E perché sono speciale?»  «Perché ti ho scelto». Punto.

È così per i nostri bambini, uguali agli altri, ma quanto sono speciali per i genitori? E quanto devono frenarsi i genitori per non esaltare questo loro sentimento? Immaginatevi ancora Giuseppe e Maria, che sanno che il piccolo Gesù è molto speciale e a come si sforzino a serbare nel loro cuore le parole meravigliose che vengono loro annunciate su loro figlio.

Immaginatevi come entrano nel Tempio di Gerusalemme, mischiandosi tra la folla, senza farsi notare. Nei quadri, negli affreschi, questi personaggi hanno un’aureola che li evidenzia: nella vita reale non ci sono aureole. Per quanto situata nel Tempio, la scena di cui stiamo parlando doveva essere molto meno sacra e più prosaica di quanto non ce l’abbia fatta immaginare Hollywood, con cori di angeli e fasci di luce che seguono ogni passo di Gesù, anche quando ancora non sa camminare.

Giuseppe e Maria stanno per entrare nel Tempio e, sorpresa, un vecchio a loro probabilmente sconosciuto si avvicina e gli prende il bambino dalle braccia, per abbracciarlo, per baciarlo, per benedirlo e, infine, per lodare Dio. Una lode talmente bella da essere diventata un salmo, uno dei tre salmi — gli altri due sono quello di Zaccaria e quello di Maria — con cui si apre il vangelo di Luca, il Nunc Dimittis.

«Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, che hai preparata dinanzi a tutti i popoli per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele».

«Tu lasci andare in pace il tuo servo secondo la tua parola»: le promesse sono compiute, posso andare in pace. C’è un appagamento raro in queste parole di Simeone. Spesso le parole umane sono piene di rimpianti, in particolare più avanzano gli anni: “avrei potuto fare questo” oppure “come stavo bene una volta”, sono tra i pensieri che possono venire in mente a chi fa un bilancio della vita. Simeone invece è appagato, è soddisfatto: i suoi occhi hanno visto quello che dovevano vedere per lasciarlo soddisfatto.Hanno visto la salvezza. Il testo ci dice che Simeone era in attesa di vedere la consolazione di Israele, ma quando vede Gesù, egli vede la luce che illumina l’intera umanità. Non c’è nient’altro da vedere per Simeone. I suoi occhi hanno visto in un bambino normale, come gli altri, un bambino speciale, anzi il più speciale di tutti.

Poi lo restituisce ai genitori, che sono ovviamente meravigliati. Riprendono il loro bambino speciale e lo portano a compiere le ordinarie prescrizioni della Legge. Gesù non cessa di essere un bambino come gli altri. Amato in maniera particolare da Dio. Amato in maniera particolare da Giuseppe e Maria. E, allo stesso tempo, noi non veniamo a sapere praticamente più nulla della sua infanzia, a parte l’episodio dei 12 anni, sempre al Tempio.

Ordinari e speciali: in Dio questa contraddizione si scioglie, perché ai suoi occhi siamo tutti uguali e tutti speciali. Ci ama indistintamente e ci ama personalmente. Tutti e tutte.

Oggi abbiamo celebrato un doppio battesimo e una presentazione. Oggi, con procedure — passatemi il termine — ordinarie, previste, abbiamo celebrato il duplice carattere di bambini normali e speciali. Restiamo in attesa con fiducia che loro prenderanno coscienza del loro essere uguali agli altri bambini — e questo è il compito nostro — e del loro essere speciali, perché amati personalmente da Dio — e questo è compito, appunto, di Dio; noi possiamo solo testimoniare l’amore che abbiamo ricevuto.

Restiamo nella speranza che anche loro un giorno possano dire con Simeone: «I miei occhi hanno visto la salvezza». Bambini come gli altri, esseri umani speciali perché amati da Dio.


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