Luca 2, 21-32
Il vangelo di Luca ci dice due cose apparentemente contraddittorie sul piccolo Gesù. Solo apparentemente.
La prima è che Gesù era un bambino normale, come gli altri. Un bambino inserito in una famiglia e in una tradizione etnico-religiosa. Gesù è un neonato ebreo e, come tutti i neonati ebrei, deve essere circonciso.
Angeli, pastori, nascita miracolosa, figlio di Dio. Niente, niente di tutto questo è sufficiente a negare a Gesù il diritto e il dovere di seguire le usanze del suo popolo. È scritto nella Legge di Mosè, e Giuseppe e Maria portano il piccolo Gesù a Gerusalemme, al Tempio, per presentarlo al Signore, per consacrarlo a Dio.
Se ci pensiamo un attimo è curioso: che senso ha presentare a Dio il Figlio di Dio? Il senso è che, per quanto speciale, anzi specialissimo, Gesù era un bambino come gli altri.
Questa è la prima cosa. La seconda è che, per quanto normale, Gesù era speciale. Il piccolo Gesù non doveva apparire così diverso dagli altri neonati che venivano presentati al tempio. Chissà quanti ne vedevano, lì al Tempio. La storia raccontata da Luca ci dice che c’era un uomo, di nome Simeone, un uomo anziano, che aspettava di vedere la salvezza d’Israele. Il suo ruolo sembra essere analogo a quello del marinaio che aspetta nella coffa dell’albero maestro di vedere per primo la terra. Gesù era la terra promessa che Simeone aspettava di scorgere per primo.
Ecco le due cose apparentemente contraddittorie: Gesù era un bambino come gli altri, Gesù era diverso dagli altri bambini. Dicevamo, apparentemente. La teologia cristiana si spiega questa contraddizione con l’incarnazione. In Gesù la natura umana co-esiste con la natura divina, la normalità e la straordinarietà convivevano. E questo è il dogma, questo è uno dei fondamenti della fede cristiana.
Se ci riflettiamo un momento, vediamo che anche per noi, per uomini e donne che non sono Dio, che non lo sono mai stati, nemmeno da bambini, le cose stanno esattamente così. Siamo uguali agli altri, un bambino non è sostanzialmente diverso dagli altri bambini, eppure siamo diversi, siamo speciali, ognuno e ognuno di noi è speciale, è speciale per qualcuno.
Si chiama amore. Non so se possiamo chiamarlo l’Amore con la A maiuscola, ma si chiama comunque amore. Quando una persona ci ama, ci sceglie tra tante. Siamo tutti e tutte uguali, eppure c’è qualcuno che ci sceglie e, se chiediamo «Perché mi hai scelto?», probabilmente la nostra curiosità rimarrà inappagata. «Perché mi hai scelto?» «Perché sì» è la risposta più vera che potremmo ricevere. Ti ho scelto perché sei speciale. «E perché sono speciale?» «Perché ti ho scelto». Punto.
È così per i nostri bambini, uguali agli altri, ma quanto sono speciali per i genitori? E quanto devono frenarsi i genitori per non esaltare questo loro sentimento? Immaginatevi ancora Giuseppe e Maria, che sanno che il piccolo Gesù è molto speciale e a come si sforzino a serbare nel loro cuore le parole meravigliose che vengono loro annunciate su loro figlio.
Immaginatevi come entrano nel Tempio di Gerusalemme, mischiandosi tra la folla, senza farsi notare. Nei quadri, negli affreschi, questi personaggi hanno un’aureola che li evidenzia: nella vita reale non ci sono aureole. Per quanto situata nel Tempio, la scena di cui stiamo parlando doveva essere molto meno sacra e più prosaica di quanto non ce l’abbia fatta immaginare Hollywood, con cori di angeli e fasci di luce che seguono ogni passo di Gesù, anche quando ancora non sa camminare.
Giuseppe e Maria stanno per entrare nel Tempio e, sorpresa, un vecchio a loro probabilmente sconosciuto si avvicina e gli prende il bambino dalle braccia, per abbracciarlo, per baciarlo, per benedirlo e, infine, per lodare Dio. Una lode talmente bella da essere diventata un salmo, uno dei tre salmi — gli altri due sono quello di Zaccaria e quello di Maria — con cui si apre il vangelo di Luca, il Nunc Dimittis.
«Ora, o mio Signore, tu lasci andare in pace il tuo servo, secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, che hai preparata dinanzi a tutti i popoli per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele».
«Tu lasci andare in pace il tuo servo secondo la tua parola»: le promesse sono compiute, posso andare in pace. C’è un appagamento raro in queste parole di Simeone. Spesso le parole umane sono piene di rimpianti, in particolare più avanzano gli anni: “avrei potuto fare questo” oppure “come stavo bene una volta”, sono tra i pensieri che possono venire in mente a chi fa un bilancio della vita. Simeone invece è appagato, è soddisfatto: i suoi occhi hanno visto quello che dovevano vedere per lasciarlo soddisfatto.Hanno visto la salvezza. Il testo ci dice che Simeone era in attesa di vedere la consolazione di Israele, ma quando vede Gesù, egli vede la luce che illumina l’intera umanità. Non c’è nient’altro da vedere per Simeone. I suoi occhi hanno visto in un bambino normale, come gli altri, un bambino speciale, anzi il più speciale di tutti.
Poi lo restituisce ai genitori, che sono ovviamente meravigliati. Riprendono il loro bambino speciale e lo portano a compiere le ordinarie prescrizioni della Legge. Gesù non cessa di essere un bambino come gli altri. Amato in maniera particolare da Dio. Amato in maniera particolare da Giuseppe e Maria. E, allo stesso tempo, noi non veniamo a sapere praticamente più nulla della sua infanzia, a parte l’episodio dei 12 anni, sempre al Tempio.
Ordinari e speciali: in Dio questa contraddizione si scioglie, perché ai suoi occhi siamo tutti uguali e tutti speciali. Ci ama indistintamente e ci ama personalmente. Tutti e tutte.
Oggi abbiamo celebrato un doppio battesimo e una presentazione. Oggi, con procedure — passatemi il termine — ordinarie, previste, abbiamo celebrato il duplice carattere di bambini normali e speciali. Restiamo in attesa con fiducia che loro prenderanno coscienza del loro essere uguali agli altri bambini — e questo è il compito nostro — e del loro essere speciali, perché amati personalmente da Dio — e questo è compito, appunto, di Dio; noi possiamo solo testimoniare l’amore che abbiamo ricevuto.
Restiamo nella speranza che anche loro un giorno possano dire con Simeone: «I miei occhi hanno visto la salvezza». Bambini come gli altri, esseri umani speciali perché amati da Dio.
Questo testo ci presenta i primi passi di Gesù fuori dalla
grotta di Betlemme e ci presenta in modo molto semplice, qualcosa
che ci sta molto a cuore: Gesù che entra, secondo la legge del
popolo dell’Alleanza, Lui che riceve il nome e lo possiamo chiamare
per nome, poi Lui che è il Signore, che entra nel tempio. Le parole
dell’ingresso del Signore nel tempio terminano l’A.T. e dicono che
sarà un giorno tremendo quel giorno, e l’attesa di tutto l’A.T. è che il
Signore ritorni nel tempio e faccia fuori tutti gli ingiusti del mondo e
finalmente Dio regni sulla terra. E Gesù entra nel tempio e vediamo come. E poi lo Spirito Santo lo fa riconoscere a Simeone e a una vedova. Ci fermiamo sui vari quadri, dando degli spunti sui quali
potrete poi fermarvi e contemplare durante la settimana, un punto
al giorno, e vedrete quanto è ricco ogni spunto. In genere noi diciamo che il giorno finisce. Perché qui dice che
i giorni sono compiuti? Che differenza c’è tra il compimento e la
fine? Vuol dire “finiti gli otto giorni”…
Perché il tempo così come lo intende la Scrittura, come lo
intende il Vangelo, è gravido di eternità. Quindi non è che scorra
come dice la traduzione; passa, semplicemente, “si compie”. È un
tempo che non si consuma, ma piuttosto si riempie.
È ben diverso il tempo passato, il tempo finito, il tempo
trascorso dal “tempo compiuto”.
Un tempo che si riempie. Il tempo è vita. La vita non è che
passa, si riempie, è un compimento, vuol dire che ha un fine. E
andare verso il fine è diverso che scomparire, vuol dire avere
raggiunto l’obiettivo, quindi aver realizzato. Mentre dire “finiti gli
otto giorni” vuol dire che tutto è finito, come la vita, sono finiti gli
anni; no, invece, si compie.
E, dopo otto giorni, lo circoncidono secondo la legge. La
circoncisione è il segno dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo,
quell’Alleanza che il popolo aveva già trasgredito prima di riceverla
– ricordate Mosè che era sul monte e il popolo che aveva già il suo
vitello d’oro – Dio l’ha rinnovata. Ne ha fatte tante di Alleanza. E
siccome il popolo, cioè noi, le trasgrediamo sempre, Dio ha detto
che farà un’alleanza nuova eterna. E per fare un’alleanza nuova ed
eterna, bisogna farne una che non si rompa mai. Come si fa a fare un’alleanza che non si rompa mai con un altro che la rompe
sempre? Dio ci è riuscito con Gesù. Gesù è il SÌ totale di Dio
all’uomo ed è il SÌ totale dell’uomo a Dio. E porta su di sé tutta la
maledizione della rottura dell’alleanza lui stesso. Quindi in lui si
compie l’Alleanza. Perché la compie dalle due parti.
E poi gli danno il nome: Gesù.
Vorrei che ci fermassimo su questa parola: Gesù. C’è la
preghiera del cuore che consiste nel ripetere questo nome Gesù,
come uno ripete il nome della persona amata, ed è il pulsare del
cuore.
Innanzitutto è chiamare per nome colui che è “il nome” da cui
proviene ogni nome, tutto esiste per lui, in vista di lui, attraverso di
lui. Lui che non ha un nome, non lo puoi nominare, ha un nome e lo
posso chiamare: Gesù.
Chiamar per nome vuol dire far esistere. Una persona esiste
se la chiami per nome. Esiste per te, ma anche per sé, perché se
nessuno mi chiama non ho nome, non ho identità. È questa la gioia
di uno che si sente chiamare per nome, tranne che magari in casi di
arresto o altre cose… Il nome è la relazione, è l’alleanza prima il
nome. Avete mai avuto la sorpresa quando un bambino vi chiama
per la prima volta per nome? Vi sembra di esistere, di nascere,
esistete per una persona.
Anche Dio finalmente esiste, ha un nome, lo posso chiamare
per nome, quindi avere una relazione con lui di cui tutto parla, ha
un nome, un volto preciso.
E pensate anche alla gioia di Dio: finalmente di poter essere
chiamato per nome, di poter esistere per noi, colui che è amore.
E questo nome è il centro del Cristianesimo. La nostra
relazione con Gesù è quella relazione che ci fa esistere come siamo,
figli nel Figlio, figli del Padre pieni dello Spirito, capaci di voler bene
a sé con lo stesso amore con il quale ci ama Dio, scoprire la propria
dignità, scoprire la dignità di tutti gli altri, scoprire la propria
missione nel mondo che è quella di rivelare questa gloria
dell’amore: questo è chiamar per nome.
Nella preghiera non potreste fare altro che dire questo nome.
Noi siamo della Compagnia di Gesù e S. Ignazio ci teneva al nome
Gesù. Piuttosto sopprimerla, ma non sopprimere quel nome.
E tutta la Scrittura parla di Gesù, di quest’uomo. E la vita
eterna sarà contemplare nella sua umanità la nostra umanità che è
Dio, la sua umanità: chi ha visto me ha visto il Padre!
E noi leggiamo il Vangelo per conoscere Gesù che è il volto del
Padre, il nostro vero volto di figli. E non è un’entità astratta, è Gesù.
E Gesù lo può chiamare chiunque. Anzi nel Vangelo di Luca, a
chiamare Gesù per nome sono soltanto dieci lebbrosi – cap. 17 – poi
il cieco – cap. 18 – e il malfattore – cap. 23.
Nessun giusto può chiamarlo per nome, perché Gesù vuol
dire “Dio salva”.
Bisogna che uno si senta perso per sentire il Signore Salvatore.
Non è che Lui ci voglia perdere, ci vuole dare la salvezza.
Perché la nostra salvezza è quella di essere ciò che siamo: figli. In
relazione con Lui, con questo nome, diventiamo noi stessi. Questa
è la salvezza. Come quando si salva un documento, non è che vi si
aggiunga qualcosa al documento che ve lo stravolge, si salva quel
documento che se no va perso; così la nostra umanità è persa senza
questo nome. Quindi sostate almeno un giorno su questo nome. È
la sorpresa di chiamare Dio per nome, da amico a amico,
qualunque sia la mia posizione: malfattore, lebbroso, cieco, non
capisco niente, mi sento immondo, è il mio diritto a conoscerlo e a
chiamarlo per nome. Qui potremmo fermarci anche tutta la sera e ci
fermeremo anche gli anni successivi se ci siamo e la vita eterna.
Domani ore 11 culto?
Anticipatamente grazie 🙂
Sì certo
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