Predicazione di domenica 1 ottobre 2017


Predicazione del pastore Luca Maria Negro presso la nostra chiesa, in occasione del convegno internazionale “Vivere la frontiera”, sul testo del profeta Michea 2,12-13

 


12 «Io ti radunerò, o Giacobbe, ti radunerò tutto quanto!
Certo io raccoglierò il resto d’Israele;
io li farò venire assieme come pecore in un ovile;
come un gregge in mezzo al pascolo;
il luogo sarà pieno di gente.
13 Chi farà la breccia salirà davanti a loro;
essi faranno la breccia, passeranno per la porta e per essa usciranno;
il loro re marcerà davanti a loro
e il SIGNORE sarà alla loro testa».

In questo breve testo troviamo tre metafore, tre immagini che si riferiscono a Dio, nominato esplicitamente alla fine del testo come “il Signore”, cioè con il suo “nome proprio”, il “tetragramma sacro”. Ora, se di queste metafore due sono più che consuete – Dio come un pastore che raduna il suo gregge e come un Re che marcia alla testa del suo popolo – la terza è piuttosto insolita: Dio come Colui che “fa la breccia” o, come diceva la vecchia traduzione Diodati con un termine forse un po’ arcaico ma molto efficace, Dio come “lo sforzatore”. Che significato ha questa immagine di Dio come “sforzatore”, come colui che apre una breccia, che crea un varco, che sfonda le porte chiuse?

In tutta la Bibbia questo è l’unico testo in cui a Dio viene dato questo titolo di “sforzatore” (happoretz), ma il termine “breccia” (péretz) e il relativo verbo (prtz) che significa “rompere, irrompere, sforzare, abbattere” è ben attestato, anche in riferimento a Dio. Talvolta la breccia aperta da Dio ha un significato minaccioso, come in un episodio di II Samuele (6,8) dove Dio “apre una breccia” in mezzo al popolo per difendere la sua santità, o come nel Salmo 106,23 dove si dice che Dio apre una breccia con l’intenzione di sterminare il popolo infedele, ma Mosè si mette in mezzo, quasi bloccando la breccia per intercedere per il popolo: “Mosé, suo eletto, stette sulla breccia davanti a lui per impedire all’ira sua di distruggerli”.

Altre volte, invece, come nel nostro caso, Dio apre una breccia per liberare il suo popolo quando esso si trova prigioniero, bloccato, ingabbiato. Il nostro testo è un oracolo di salvezza, collocato in mezzo a una serie di oracoli di giudizio che sono piuttosto duri nei confronti del popolo d’Israele. Per questo motivo molti commentatori hanno pensato che si tratti di un’aggiunta tardiva. In realtà l’alternanza di oracoli di giudizio e di salvezza è tipica in generale dei libri profetici e nello specifico di Michea, un profeta della seconda metà dell’VIII secolo (contemporaneo di Isaia), che è testimone della caduta del regno del nord, Israele (721 aC), e forse anche dell’invasione assira del regno del sud, Giuda 701 aC). Quindi, di per sé questo oracolo “positivo” ci sta bene nel contesto del messaggio di Michea: come a dire che la distruzione dei due regni e il conseguente esilio non saranno l’ultima parola: Dio tornerà a radunare Israele, a raccogliere il suo “resto” come pecore in un ovile, come un gregge in mezzo al pascolo. Questo è il messaggio del v. 12.

Effettivamente il v. 13 forse potrebbe essere considerato come un’aggiunta tardiva, come un commento, o meglio una rilettura dell’oracolo del v. 12 che riflette l’esperienza dell’esilio e profetizza l’uscita degli esuli dalla “prigione” babilonese. Infatti, mentre il v. 12 è un oracolo in cui Dio parla direttamente, in prima persona, al versetto 13 si parla di Dio in terza persona, e si sottolinea per tre volte il suo precedere, il suo muoversi davanti al popolo: “Chi farà la breccia salirà davanti  a loro… il loro re marcerà davanti a loro, il Signore sarà alla loro testa”.

Il popolo viene dopo, segue il Dio pastore, “sforzatore” e re, ma attenzione: non si tratta di una sequela “passiva”; è un gregge sì, ma non di “pecoroni”: il popolo è chiamato a fare la sua parte, a collaborare attivamente all’opera dello “sforzatore”: Lui è l’apripista e la guida, ma anch’essi – il popolo – “faranno la breccia, passeranno per la porta e per essa usciranno”.

Care sorelle, cari fratelli, anche se non possiamo determinare esattamente il contesto storico del testo, credo che il suo messaggio sia chiaro: esso pone davanti a noi l’immagine di un Dio che apre una breccia, che apre dei varchi quando la situazione è bloccata, che  riapre prospettive di speranza quando non vediamo vie d’uscita. Un Dio che fa breccia e che chiama il suo popolo non solo a seguire chi apre la breccia ma a cooperare attivamente a quest’opera, diventando un popolo di “sforzatori”. Perché se Dio è l’apritore di brecce, quello dello “sforzatore”, dell’apritore di vie d’uscita dovrebbe essere riconosciuto come un vero e proprio ministero; potremmo dire una variante del ministero profetico. A questo proposito mi viene in mente, nel Nuovo Testamento, quell’enigmatico detto di Gesù a proposito dei violenti che si impadroniscono a forza del Regno: “Dai tempi di Giovanni battista fino a ora, il regno dei cieli è preso a forza e i violenti se ne impadroniscono” (Matteo 11,12).

Questa esperienza di un Dio che fa breccia e che suscita degli “sforzatori”, dei “guastatori”, degli apri-pista l’abbiamo fatta anche noi, nei secoli e negli anni anche recenti. Abbiamo riconosciuto – o meglio abbiamo creduto di riconoscere, perché dobbiamo guardarci dall’assolutizzare il nostro sguardo sulla storia – abbiamo riconosciuto la mano di questo Dio che fa breccia in molte situazioni: in questo anno di “Giubileo della Riforma” possiamo dire di aver riconosciuto in Martin Lutero uno “sforzatore” suscitato da Dio per riportare la Chiesa alla sequela dell’Evangelo (e ci rallegra il fatto che anche lo sguardo dei cattolici su Lutero sta cambiando); e non solo in lui, perché Lutero non ha aperto la breccia da solo, ma con il concorso di un intero popolo desideroso di riscoprire il messaggio dell’Evangelo.  Ancora, possiamo riconoscere dei “facitori di breccia” in tanti “profeti” dei nostri tempi, da Martin Luther King a Nelson Mandela, e in tanti movimenti contro il razzismo, per l’inclusione, per la pace…

E oggi? Dov’è che Dio apre delle brecce, e ci chiede di aprirle a nostra volta? Permettetemi di indicare tre esempi.

1. Il primo esempio è un esempio controverso, ma prendo lo stesso il rischio di citarlo. Riguarda l’atteggiamento delle nostre chiese – o almeno di una parte delle nostre chiese evangeliche – di fronte all’omosessualità. La decisione di benedire coppie dello stesso sesso, presa dal Sinodo delle chiese metodiste e valdesi quando non esisteva ancora una legge che le riconoscesse sul piano civile (dunque facendo un’eccezione alla regola, visto che di norma le nostre chiese escludono di benedire relazioni affettive senza effetti civili) è stata considerata da molti come inopportuna, avventata, come una “forzatura”. Eppure non potrebbe essere vista proprio con una forzatura positiva, una “breccia”, insomma, un segno di stimolo alla società civile davanti a una situazione bloccata da tanto, troppo tempo?

2. Un altro esempio di “breccia” che mi viene riguarda la situazione ecumenica e specificamente la difficoltà che i cristiani tuttora hanno nel condividere la Cena del Signore. Nel mondo ci sono centinaia di migliaia di coppie interconfessionali che condividono la vita quotidiana e la mensa di tutti i giorni, ma non la mensa eucaristica. Di fronte alla prudenza eccessiva delle gerarchie, un gruppo di credenti cattolici e protestanti, nella città in cui ho vissuto fino a due anni fa (Torino), hanno deciso di “aprire una breccia”, promuovendo sistematicamente l’ospitalità eucaristica con visite mensili a chiese protestanti e cattoliche. Il gruppo, che continua ancora oggi la sua azione, si chiama “Spezzare il pane insieme”, e io (che ne facevo parte) lo chiamavo scherzosamente “eucarestia selvaggia”. Di nuovo, si è trattato di una forzatura inopportuna, come ci hanno detto autorevoli esponenti sia del mondo cattolico che di quello evangelico, oppure della creazione di una “breccia” coerente con l’azione di quel Dio che apre dei varchi nel muro del nostro immobilismo?

3. Infine, un esempio meno controverso, sul quale spero tutti siano d’accordo, almeno qui: il progetto ecumenico dei “corridoi umanitari”, avviato da un anno e mezzo dalla Federazione delle chiese evangeliche, dalla Tavola valdese e dalla Comunità di Sant’Egidio, che ritengo sia un significativo esempio di questo ministero dei cristiani come “sforzatori”, come apritori di brecce. Con questo progetto, che come sapete ha portato in Italia ormai quasi mille rifugiati siriani provenienti da campi profughi in Libano, noi in effetti non abbiamo la pretesa di risolvere globalmente il problema delle migrazioni, che è molto più grande rispetto ai nostri numeri; e in fondo non fa parte del nostro compito. Ma vogliamo “fare una breccia”, mostrare cioè che esiste un’alternativa possibile ai viaggi della morte su barconi e gommoni; e questo sì che fa parte del nostro compito di credenti.

Fare breccia, aprire un varco: testimoni  di un Dio che “fa breccia”, siamo chiamati a nostra volta ad aprire nuove piste quando intorno a noi le situazioni di ingiustizia e di sofferenza si incancreniscono, quando diventiamo preda della disperazione, dell’indifferenza e dell’apatia.

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