Riportiamo qui il contenuto della lectio sul Credo Niceno-Costantinopolitano a cura del pastore Peter Ciaccio, primo appuntamento. Vi aspettiamo mercoledì prossimo 18 ottobre alle 20.30. Al termine è prevista una discussione con i presenti.
Introduzione: Cos’è un credo?
Un credo è una sintesi o, come dicevano gli antichi, un simbolo.
Simbolo è una parola fuorviante oggi, perché noi la usiamo come sinonimo di segno caratteristico. Pensiamo ai simboli sulle schede elettorali — sempre meno simboli, perché sempre meno comprensibili — oppure ai simboli di un cantiere, di un manuale d’istruzioni. Il simbolo del triangolo che significa attenzione, pericolo, per fare un esempio. Per questo chiamare “simbolo” un credo, non ci aiuta alla comprensione immediata. Dobbiamo andare al significato greco. Simbolo viene dal greco syn-ballo, ovvero “tengo insieme”. Ecco che ci avviciniamo: un credo è un simbolo perché tiene insieme i punti fondamentali di una fede. E in questo è una sintesi.
Infatti, se andassimo a vedere le spiegazioni che i teologi hanno fatto dei punti fondamentali della fede, non basterebbe questo tempio a contenerli tutti, e la stessa umile spiegazione che condivido con voi stasera sarà molto più prolissa del credo in esame, pur esaminandone solo una parte.
Il credo è dunque un simbolo, una sintesi, una carta d’identità del cristiano. Tu chi sei? Sono un cristiano. E in cosa credi? Il credo è il modo migliore di essere completo e, allo stesso tempo, breve, senza però chiudere i giochi. Il credo non dice l’ultima parola sulla fede, ma è piuttosto una possibile prima parola di un libro che dobbiamo scrivere noi con le nostre vite.
Questo deve essere chiaro, e lo è per chi è abituato ad ascoltare le mie predicazioni o interventi. I punti della fede, i cosiddetti dogmi, non sono la prigione della fede o della coscienza, ma sono i punti fermi che ci permettono di camminare, di andare avanti e applicare gli insegnamenti di Cristo nella vita di tutti i giorni.
Ci sono diversi credi. Il più famoso è il Credo Apostolico. Il Credo Niceno-Costantinopolitano è generalmente considerato il più completo. Non sono però gli unici simboli. Le chiese della Riforma hanno adottato la Confessione di Fede come “carta d’identità”, come la Confessio Augustana dei luterani. Nella tradizione riformata, poi, ogni chiesa può elaborare una confessione di fede in caso di forti sfide provenienti dal tempo presente. Un esempio a noi vicino è la Confessione di Fede della Chiesa Valdese di Palermo, redatta ai tempi delle stragi di mafia, dell’omicidio dei giudici Falcone e Borsellino. Una confessione di fede non necessariamente esclude l’altra, ma tutte si richiamano ai credi della chiesa dei primi secoli.
Crediamo in Dio
Una prima cosa che notiamo del Simbolo Niceno Costantinopolitano è che non si tratta di un “credo”, ma di un “crediamo”. Questo plurale è molto interessante per noi, oggi, in un’epoca dove l’individuo ha conquistato un ruolo primario nella società. E acquista un valore importante anche alla luce del momento storico in cui è stato concepito.
Il Concilio di Nicea, di cui parleremo la prossima volta, per non fare di questa serata tutta un’introduzione, ha scelto il plurale, quando avrebbe potuto scegliere il singolare: la chiesa crede, l’impero crede, il vescovo crede, l’imperatore crede e, di conseguenza, fedeli e sudditi credono. Il “crediamo” di Nicea eleva al rango di protagonisti della fede chi era all’epoca sottoposto. Noi crediamo, non come conseguenza del fatto che l’imperatore crede. Noi crediamo perché ognuno di noi crede, lo fa insieme agli altri, e allora “crediamo”.
L’importanza del plurale per oggi è, invece, speculare. Dire che la fede è un sentimento, un proposito personale oggi è quasi dire una banalità. In un’epoca in cui, grazie a Dio — se mi permettete — ognuno crede quel che vuole, il fatto che il simbolo inizi con un “crediamo” acquista un’importanza particolare. La fede, infatti, sarà pure un’esperienza personale, privata, unica per ciascun individuo, ma questo non fa della fede l’ennesima esperienza che facciamo da soli. L’emancipazione, quasi il trionfo, dell’individuo — che a me personalmente piace pure — ha tra gli effetti collaterali la solitudine. Sono libero, ho pari diritti e doveri rispetto agli altri, ma sono anche solo.
Ecco, il “crediamo” oggi ci dice che nella fede non siamo soli. Possiamo essere soli in tutto il resto, ma non nella fede. E allora, a partire dalla fede, posso costruire una mia rete di relazioni, un senso di appartenenza, posso portare la mia fede personale all’interno di un’identità collettiva, di una comunità di fede, di una chiesa. Perciò, “credo”, certamente, ma soprattutto “crediamo”.
Questo per quanto riguarda il soggetto, il “noi”. Ma il verbo? Cosa significa credere? Nella nostra lingua credere esprime una possibilità. “Credo che le cose stiano così” suona come “Mi pare così”. Esprime, in altre parole una percezione personale, tutta da verificare. Non è questo, però, il senso della parola “credere” in questo contesto.
Per il credente, infatti, “credere” esprime una certezza. “Io credo in Dio” non equivale alla frase “io credo alla presenza di civiltà extraterrestri”. La seconda affermazione esprime, infatti, una supposizione, una teoria logica, che resta in attesa di conferma o smentita. Quando invece dico di credere in Dio non cerco conferma. Questo non cancella la possibilità di dubbio, di cui magari parleremo un’altra volta. Io credo in Dio è un’affermazione forte, non possibilista.
E qui arriviamo all’ “in”. Io non credo che Dio esista. Io credo in Dio. Sono due cose diverse. Io credo in Dio, parte dall’assioma che Dio esiste per dire che la sua esistenza è rilevante per me. Io credo in Dio significa che mi affido a Dio. Ci possiamo soffermare un attimo sull’ateismo pratico, quello stigmatizzato dal Salmo 14: “Lo stolto in cuor suo dice che non c’è Dio”, cioè lo stolto ha fatto un ragionamento arrivando alla conclusione che non c’è Dio e di conseguenza si tratta di uno stolto. Nessuno all’epoca avrebbe mai negato l’esistenza di Dio. Il punto è un altro: il fatto che Dio esista ha o non ha una rilevanza, una conseguenza per me? Dio interviene nella mia vita o si fa gli affari suoi sull’Olimpo?
Credere in Dio significa anzitutto questo: io mi affido a Dio, perché a Dio posso affidarmi, perché non mi tradisce, perché per lui sono importante. Il credo non è un testo contro l’ateismo tout court, che era impensabile all’epoca della sua stesura, e che oggi possiamo dire essere un fenomeno degno di rispetto e di attenzione. Il credo se la prende con l’ateismo pratico, che non nega l’esistenza di Dio, ma che dice che non c’è relazione con Lui.
La prossima volta, prima di andare avanti con “Padre onnipotente”, ci soffermeremo su “un solo Dio”.