La libertà: cosa te ne fai?


Predicazione sul testo di Galati 5,13-14, a cura del pastore Peter Ciaccio per il culto di memoria e ringraziamento del XVII Febbraio, in occasione del 170° anniversario della Concessione delle Lettere Patenti da parte di Re Carlo Alberto.

Fratelli, voi siete stati chiamati a libertà; soltanto non fate della libertà un’occasione per vivere secondo la carne, ma per mezzo dell’amore servite gli uni agli altri; poiché tutta la legge è adempiuta in quest’unica parola: «Ama il tuo prossimo come te stesso». [Galati 5,13-14]

Sorelle, fratelli, amici, come ogni anno, questa sera, la sera del 17 febbraio riflettiamo sulla libertà. Ed è bene che lo facciamo. È un bene, perché la libertà è oggi un termine ambiguo. Forse lo è sempre stato.

Nel ’48 — non nel 1848, ma nel 1948, nel secolo scorso — usciva il romanzo più celebre dello scrittore e giornalista inglese George Orwell, intitolato invertendo le ultime due cifre della data di pubblicazione: 1984.

In questo libro, che consiglio a chi non l’avesse ancora letto — ma avverto che è tanto bello quanto angosciante — si narra di un futuro non troppo lontano, meno di 40 anni in avanti, in cui il mondo è diviso in tre super-stati. Il protagonista vive nel super-stato Oceania, che non è la nostra Australia, ma è comprende anche le Americhe, l’Africa Australe e le Isole Britanniche. L’Oceania è retta da una dittatura spietata che, attraverso la propaganda e la repressione, controlla le menti dei suoi abitanti. «Il Grande Fratello vi guarda» dicono i manifesti che avvertono, appunto del controllo e della repressione dello stato. Ma per chi volesse convertirsi all’ideologia dello stato totalitario, c’è un motto, anzi un credo che viene recitato, che il bravo cittadino di Oceania deve introiettare, fare proprio: «La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza».

«La libertà è schiavitù»: solo il genio di Orwell poteva descrivere in maniera così sintetica lo svuotamento della parola, del concetto stesso di libertà, che può arrivare ad affermare addirittura l’esatto contrario. La libertà è una cosa brutta, perché porta all’instabilità, all’incertezza. La libertà non è per tutti. Se lo fosse, i potenti non sarebbero liberi di comandare.

Da Orwell facciamo un salto di quasi trent’anni. Pier Paolo Pasolini nel suo ultimo film, Salò, allegoria radicale e repellente del fascismo, un film inguardabile ma vero, fa dire ai gerarchi: «Noi fascisti siamo i soli veri anarchici, naturalmente una volta che ci siamo impadroniti dello stato. Infatti la sola vera anarchia è quella del potere». L’anarchia, la libertà da ogni capo, da ogni potere è rovesciata diabolicamente nella libertà di fare del male, di offendere, di avere potere di vita e di morte sul prossimo, anzi, non c’è il prossimo, c’è solo il sottoposto, lo schiavo. Come diceva 1984, «La libertà è schiavitù», ovviamente dal punto di vista dello schiavista.

Questa sera ho scelto di farvi fare un viaggio letterario, ma ci arriviamo al 1848, ci arriviamo. Non prima, però, di fare un’altra tappa, in Russia, siamo nel 1879 ed esce a puntate l’ultimo romanzo di Fëdor Dostoevskij: il meraviglioso I fratelli Karamazov. Meno angosciante di 1984, ma decisamente più impegnativo. Leggetelo, mi raccomando.

All’interno del romanzo è inserito un racconto: la storia del Grande Inquisitore. Nulla di strano che fosse un antenato del Grande Fratello. Siamo nel XVI secolo, gli anni della Riforma e della Controriforma, in Spagna: per motivi che non ci sono rivelati, il Signore Gesù, mai nominato esplicitamente, sceglie quel luogo e quell’epoca per tornare sulla terra. Viene catturato dalla Santa Inquisizione, molto più veloce ed efficace di quanto non fossero i centurioni di Pilato e si presenta davanti al Grande Inquisitore, che lo interroga. Ma Gesù non risponde, dando occasione al Grande Inquisitore di esplicitargli la propria visione del mondo, in particolare cosa pensa della libertà.

«Non eri Tu che tanto spesso, allora, dicevi voglio rendervi liberi? Ma ecco, Tu hai veduta ora, codesti uomini liberi!» dice il vecchio inquisitore con ironia. «Per quindici secoli ci siam tormentati con questa libertà, ma ora la è finita, e finita da fondo… Codesta gente è persuasa, più che non è stata mai, d’esser libera in pieno, mentre pure con le proprie mani essi han recato a noi la loro libertà e l’hanno umilmente deposta ai nostri piedi. Ma questo l’abbiamo fatto noialtri: era forse questo che Tu desideravi, questa la Tua libertà?» Continua l’inquisitore: «Non c’è preoccupazione più assillante e più tormentosa per l’uomo, non appena rimanga libero, che quella di cercarsi al più presto qualcuno innanzi al quale genuflettersi». Per questo Gesù viene nuovamente condannato: «Se mai c’è stato uno che più d’ogni altro ha meritato il nostro rogo, questi sei Tu. Domani Ti farò bruciare».

La libertà dei potenti, la schiavitù benevola nei confronti dei sottoposti, che non saprebbero cosa farsene della libertà; lo stato etico, che controlla le coscienze, dove la diversità è considerata devianza da reprimere ed estirpare. Da tutto questo i valdesi del Piemonte sono stati liberati il 17 febbraio del 1848. È questa liberazione che questa sera celebriamo.

Non c’erano borghesi e intellettuali tra i valdesi delle Valli. A parte i pastori che, grazie all’amicizia dell’Internazionale Protestante, studiavano nelle migliori università del mondo, la stragrande maggioranza dei valdesi erano contadini, allevatori, persone che vivevano del loro lavoro in condizioni spesso ostili. Queste persone erano povere, ma libere, perché scolarizzate, introdotte alla Bibbia: per quanto studiasse il pastore, la sua cultura non lo metteva in posizione di potere rispetto al popolo valdese. Il Signore li proteggeva e li custodiva per mezzo della Parola e dello Spirito.

Ma non potevano uscire dalle Valli Pellice, Chisone e Germanasca. Non potevano scendere sotto una certa altitudine. Non potevano andare a Pinerolo o a Torino, se non a rischio della loro vita o della vita dei loro cari. Perché? Perché erano liberi, erano già liberi, e questa libertà incuteva sospetto e timore nei potenti. «Se li lasciamo liberi, anche gli altri vorranno essere liberi. Non possiamo tollerarlo», questo devono aver pensato.

Non è un caso che le libertà civili vengano concesse ai valdesi nel contesto storico del 1848, della concessione dello Statuto Albertino. Non pensiamo, infatti, che i valdesi fossero oppressi e i non valdesi fossero liberi. Né i valdesi né i cattolici erano liberi, anzi, questi ultimi erano dominati dal potere, dal potente di turno con l’illusione di essere più liberi dei valdesi.

Ecco che la concessione delle libertà civili ai valdesi non è — o non è solo — una festa identitaria, una “cosa valdese”, ma una questione che riguarda tutti. Ecco perché da anni sosteniamo che il 17 febbraio dovrebbe essere riconosciuto come giornata nazionale della libertà religiosa e di coscienza, perché non è la sagra dei valdesi, non è il “pride” dei valdesi. È una storia molto vicina ai valdesi, ma riguarda tutti.

E qui arriviamo al dilemma, alla preoccupazione del Grande Inquisitore: una volta liberato, che fai della libertà? Cosa te ne fai? Rileggiamo il testo della Lettera ai Galati:

“Fratelli, voi siete stati chiamati a libertà; soltanto non fate della libertà un’occasione per vivere secondo la carne, ma per mezzo dell’amore servite gli uni agli altri; poiché tutta la legge è adempiuta in quest’unica parola: «Ama il tuo prossimo come te stesso».”

Siete stati chiamati a libertà, ma non usate questa libertà per essere schiavi del peccato. Non usate questa libertà per soggiogare altri o per vendere la vostra libertà ad altri. Non usatela come i gerarchi fascisti di Salò, come il Grande Fratello di 1984, come il Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov. Usate questa libertà per servire il prossimo, non un nuovo padrone, non un nuovo signorotto, ma il prossimo, ovvero colui o colei che il Signore ti mette accanto, alla pari, colui o colei il Signore ti fa incontrare per la via.

Ecco perché questa sera abbiamo invitato i nostri amici e fratelli di altre chiese cristiane: insieme siamo stati chiamati a libertà, insieme siamo liberi ora di servirci reciprocamente, di amarci gli uni gli altri.

Questo è il senso della liberazione operata da Dio: servizio e amore per il prossimo. E se il nostro prossimo non fosse libero, dovremmo lottare anche per la sua liberazione. Perché se il prossimo non è libero, la nostra libertà è limitata, è tronca. Fratelli, chiamati a libertà, facciamola fruttare come un talento, come un dono di Dio, perché, in fin dei conti, questa è la libertà: un dono di Dio. E il Signore un giorno tornerà e ci chiederà: cosa ne hai fatto?

Nessuna angoscia, dunque, nessuno smarrimento, ma un compito ben preciso: libertà per tutti e tutte, libertà per chi libero non è, libere e liberi tutti, con amore e gratitudine.

Amen

Credits:
le foto sono di Francesco Billetta

il falò è stato curato dal
Gruppo AssiScout Rosario Livatino,

che ha sede nei locali della nostra chiesa

le citazioni di I fratelli Karamazov sono tratte
dall’edizione Einaudi del 1949,
tradotta da Agostino Villa

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