Predicazione a cura del pastore Peter Ciaccio sul testo di Marco 10,17-27, durante il culto di domenica 15 ottobre 2017 presso la nostra chiesa.
Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio. Tu sai i comandamenti: “Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre”». Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù». Gesù, guardatolo, l’amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va’, vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente perché aveva molti beni. Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!» I discepoli si stupirono di queste sue parole. Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio». Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?» Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
(traduzione dalla vignetta: “Semplice: compreremo un ago più grosso!”)
Il testo di oggi potrebbe essere letto come la solita filippica contro i ricchi e il solito canto di apprezzamento dei poveri. E così è stato letto ed è letto tuttora. I ricchi sono moralmente cattivi, i poveri no. O, ammorbidendo, i ricchi sono tendenzialmente cattivi, i poveri tendenzialmente buoni.
È un modo automatico, semplicistico, furbo di leggere l’Evangelo, di comprendere il ministero di Gesù sulla terra. Pare che Gesù fosse un maestro nel senso più banale del termine: uno che dà i voti. A te do 3, a te do 8, a te dico “bravo”, a te dico “insufficiente”. Devo dire che molti comprendono i maestri, gli insegnanti così: non come qualcuno che ti mostra una via, una possibilità, che ti insegna delle cose affinché tu possa affrancarti dalla sua guida, ma uno che dà voti, uno che ti boccia o ti promuove.
Ora, non voglio dire che Gesù non dia i voti, che non giudichi. Lo diciamo nel credo: Gesù è il supremo giudice, che verrà a giudicare i vivi e i morti, dunque ci sarà un momento in cui darà i voti. Allo stesso tempo, però, anche gli insegnanti danno i voti, ma possiamo esaurire il ruolo dell’insegnante a questo? Possiamo fare lo stesso con Gesù? Io dico di no.
Anche perché, se guardiamo bene, il giovane ricco è uno bravo. Da quando è bambino segue la legge, fa tutto quello che gli viene prescritto. Fa i suoi compiti, potremmo dire. Infatti di Gesù il testo dice questo: “Gesù, guardatolo, l’amò”. Cosa significa, da parte di un maestro? Significa che il ragazzo ha studiato, si è impegnato e il voto è pertanto buono. E poi?
C’era una materia in cui andavo particolarmente bene a scuola: la matematica. Mi ricordo che un giorno la mia insegnante delle scuole medie prese me e un paio di altri e ci diede dei compiti in più rispetto al resto della classe. Avevo dodici anni e la vedevo come una punizione. Dovete sapere che davanti a voi non c’è un secchione, ma c’è uno che studiava anzitutto per non essere rimandato a settembre, per farsi le vacanze in santa pace. Per me fare i compiti velocemente e imparare in fretta non aveva come obiettivo il voto oppure non era mio obiettivo diventare un genio: volevo finire prima per finire, per andare a giocare o a leggere un libro, guardare la tv. Insomma, potete immaginare, qualcosa non andava in quello che mi stava succedendo a dodici anni. Ma come? Imparo, finisco i compiti prima e me ne dai altri?
Potete immaginare come continua la storia. Insieme agli altri, chiedemmo conto all’insegnante: prof, ma perché se siamo più bravi ci dai più compiti? Lei si mostrò sorpresa dalla richiesta, ma oggi penso che recitasse una parte. Si prese un attimo, ci guardò e rispose: “Perché voi potete fare di più, voi potete essere di più. Voi non dovete preoccuparvi della promozione, del voto. Voi siete bravi ed è mio compito non farvi accontentare del vostro essere bravi. Se volete, non vi darò più da fare esercizi in più, non siete tenuti a farli. Pensateci e fatemi sapere”.
Ecco, quando leggo la storia del giovane ricco non mi viene in mente come prima cosa che fosse ricco e non penso che sia stata quella la causa della sua caduta, la causa della sua “tristezza”. Penso che fosse bravo, ma che di quella bravura non sapeva cosa farsene. Arriva fino a lì, al punto giusto, arriva a chiedere a Gesù cosa deve fare di più. Capite, lui capisce che fare i compiti non serve o comunque non basta. Quando poi Gesù gli dice cosa fare, lui si convince che sia impossibile e si rattrista.
Quali conclusioni trarre da questa storia? Anzitutto, l’errore fondamentale del giovane ricco è proprio quest’ultimo: credere che quel che gli chiede Gesù di fare sia impossibile. Lasciamo stare per un momento cosa Gesù gli ha chiesto. Avrebbe potuto chiedere qualsiasi cosa: Gesù aveva la facoltà di rispondere quel che voleva, visto che gli era stata posta una domanda. Ma il giovane ricco considera la richiesta di Gesù impossibile da realizzarsi.
Questo è un errore in cui cadiamo tutti: ricchi e poveri. Quel che Dio ci chiede è impossibile. Noi pecchiamo perché Dio ci chiede l’impossibile e, allora, per forza pecchiamo. Ecco perché nasce il rancore contro un Dio spietato, giudice, un padre severo. Questa immagine di Dio è blasfema e purtroppo è stata propagata proprio dalle chiese per secoli. Dio non ci chiede l’impossibile. Dio non è il capoufficio che vuole farti sbagliare per sbeffeggiarti davanti agli altri o, peggio, per licenziarti. Dio non agisce in modo da farci cadere in fallo. Dio sa quello che noi possiamo fare, meglio di quanto non lo sappiamo noi, e quello ci chiede.
Se tu sei ricco, puoi fare di più: ecco perché è difficile. Anche se il Vangelo ci parla di ricchezza materiale, di soldi, mi permetto di leggere questa ricchezza in maniera più ampia. Io non sono ricco, nel senso che non ho un conto in banca né patrimonio che mi permetta di sostenere di esser ricco. Tuttavia, sono ricco: non solo non mi manca niente, ma ho di più.
Quando hai di più, devi dare di più. Qui è la difficoltà. Non solo nasce un attaccamento rispetto ai tuoi averi. Quel che hai spesso definisce chi sei. Spesso si fa del moralismo su questo, ma pensate a chi vede la propria casa distrutta da un’incendio, da un’inondazione, da un cataclisma. Non è solo l’aspetto materiale che piange, c’è anche un aspetto spirituale: perdere quel che hai può significare perdere un pezzo di quel che sei. Quel che hai ti descrive, fa parte della tua identità.
Ecco perché è difficile per un ricco entrare nel Regno di Dio. Difficile, badate, non impossibile. È difficile. Ora, non voglio fare l’equivalenza chiese-Regno, ma ci pensate a come le chiese si svuotano in maniera inversamente proporzionale alla ricchezza collettiva? Più si diventa ricchi, più si ha, meno si sente il bisogno di andare in chiesa.
Gesù non fa la morale al giovane ricco e non la fa a noi. Gesù è il nostro maestro, il Maestro, che ci guida, che ci insegna, che ci mostra una via. Gesù ci rivela la nostra natura, la natura delle nostre relazioni. E dice a chi può fare di più che deve fare di più. E come un buon maestro, Gesù riconosce che ci sta chiedendo tanto, riconosce la difficoltà.
Pertanto, cerchiamo di vedere il giovane ricco come uno di noi, a non giudicarlo per evitare di essere giudicati con lo stesso metro. Più seguiamo Gesù e i suoi insegnamenti e più possiamo fare e dare. E non consideriamolo una punizione, ma come un attestato di fiducia. Il Signore ci chiede di più, perché siamo in grado di rispondere positivamente. E, come spesso accade, potremo meravigliarci di quel che riusciamo a costruire insieme, lavorando per la sua gloria. Amen